19/03/16

Marina Abramović: la body art tra perfomance e interazione

Ognuno di noi dovrebbe avere la fortuna di assistere ad una performance di Marina Abramović: ne uscirebbe sicuramente sorpreso, se non turbato.

Lo spettatore si trova, infatti, immerso nel mondo della body art, l’arte fatta sul proprio corpo o direttamente con esso, nata qualche decennio fa come movimento di denuncia e di emancipazione femminile. Sì, in questa categoria potrebbero rientrare anche i tatuaggi, che al giorno d’oggi tappezzano sempre di più la nostra esistenza.


Quest’avanguardia  contemporanea si realizza attraverso la “Performance art”, che prevede che l’azione dell’artista diventi l’opera d’arte stessa, con i suoi ovvi limiti temporali.  Ed è proprio questo il punto chiave dell’intero universo di Marina Abramović: la performance, a cui non deve mai mancare l’interazione con il pubblico, vero protagonista. 

Ma da dove arriva tutto ciò? Semplice, dalla Serbia con furore! L’artista nasce nel 1946 e si fa notare sin dagli anni Settanta, diventando una delle più interessanti dei nostri giorni, purtroppo non nota a tutti. Criticata, osannata, insultata e venerata, la “grandmother of performance art”, come ama definirsi (quelle poche volte che parla), da 40 anni ricerca nuovi orizzonti, tentando ogni volta di spingersi al di là dei limiti più estremi della mente e del corpo, esponendosi spesso a concreti rischi. Ovviamente in tutto questo il pubblico è fondamentale. Sempre. 

Basta volgere lo sguardo al 1975, a Napoli, dove l’artista inscena la performance “Rhythm 0”. Qui Marina rimane per sei ore di fila impassibile di fronte agli spettatori, che hanno a disposizione un intero tavolo pieno di strumenti di piacere e di dolore, che possono essere adoperati sul corpo dell’artista. Lo spettacolo parte abbastanza fiacco, ma dopo qualche ora degenera, diventando addirittura pericoloso: i vestiti dell’artista vengono stracciati, la sua pelle tagliuzzata con delle lamette (alcuni iniziano anche a succhiarle il sangue!) e si presenta una forte probabilità che venga violentata, a causa della sua totale immobilità, tanto da dover far intervenire la sicurezza. Scopo dell’opera è affrontare le paure del proprio corpo.




In “Freeing the memory” (1976) Marina è seduta con la testa reclinata all’indietro. Inizia a pronunciare, per ore intere, tutte le parole che conosce e che le vengono in mente, in più lingue. In questo modo, come da titolo, l’artista vuole liberare la memoria dalla lingua e dai vocaboli, mezzi convenzionali per eccellenza della comunicazione. 

La vita della Abramović continua, e nei decenni successivi mette in scena nuove e originali performance. Tra queste quella che ha contribuito a darle maggiore fama in Italia è “The artist is present”, ambientata stavolta a Milano, nel 2010, al PAC. L’artista è rimasta seduta 7 ore al giorno per tre mesi, di fronte a lei una sedia vuota, su cui ognuno poteva accomodarsi per quanto tempo volesse. La donna alzava il capo solo quando l’ospite prendeva posto, aprendo gli occhi. Proprio in quel momento avveniva qualcosa di magico: lo sguardo immobile dell’artista incrociava quello dello spettatore, suscitando in lui una serie di sensazioni, quasi come se riuscisse a capire i suoi pensieri e le sue emozioni. Da qui le molteplici reazioni avutesi: c’è stato chi si è commosso, chi ha riso e chi ha urlato.

Forse il segreto della performance sta proprio nel titolo: è la presenza che dà significato all’opera e, soprattutto, il fatto che ognuno poteva vedere nell’artista il riflesso di se stesso e della sua interiorità. 

 


Durante quest’occasione Marina ebbe anche un incontro inaspettato. Quando alzò il capo, si ritrovò di fronte ad Ulay, compagno di vita, anche lui artista, con cui aveva avuto un’importante relazione. I due non si vedevano da 30 anni, la reazione di lei è stata sconvolgente. Dopo un breve incontro di mani e molte lacrime da parte della donna, i due si sono nuovamente allontanati. Marina ed Ulay avevano lavorato assieme per molti anni e creato molte performance, lasciandosi definitivamente proprio con una di esse: con “The Lovers” nel 1988 i due percorrono l’intera muraglia cinese a piedi, partendo dalle due parti opposte, incontrandosi al centro e salutandosi per sempre. La visione di questa e altre performance è caldamente consigliata. In esse si vedrà una donna che indaga sull’arte, sui limiti del corpo e della mente. Donna che, rispetto a tanti personaggi dei nostri giorni, alla fine tanto pazza poi non è!

- Michelangelo Maiellaro

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