19/03/16

Alzheimer: nuova ricerca per recuperare i ricordi

Lo psichiatra tedesco Alois Alzheimer, nel 1901, mostrò ad una sua paziente, la signora Auguste D., di 51 anni, una serie di oggetti e successivamente le chiese che cosa le era stato indicato. Lei però non riusciva a ricordare. Inizialmente, il medico registrò il suo comportamento come "disordine da amnesia di scrittura", ma la signora Auguste D. fu la prima paziente a cui venne diagnosticata quella che in seguito sarebbe stata conosciuta come malattia di Alzheimer.


La malattia di Alzheimer è un processo degenerativo che nuoce alle cellule cerebrali, rendendo lentamente l’individuo che ne è affetto incapace di condurre una vita normale e provocandone alla fine la morte. Secondo uno studio condotto dalla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, Stati Uniti, nel mondo circa 26,6 milioni di persone soffrono di questa malattia.

Il fattore più importante correlato alla comparsa di questo morbo è sicuramente l’età. La sua probabilità di comparsa aumenta con l’avanzare dell’età. Molto rara sotto i 65 anni raggiunge una diffusione significativa nella popolazione oltre gli 85 anni.

Per la maggior parte dei casi non si sa quale sia la causa scatenante di questa malattia, solo per 1-5% dei casi ci sono delle ipotesi:
  • l'ereditarietà genetica della malattia di Alzheimer, sulla base di studi effettuati su gemelli e su familiari, incide con una forbice d’oscillazione comprendente dal 49% al 79% dei casi;
  • una diffusa distruzione di neuroni, principalmente attribuita alla beta-amiloide, una proteina che, depositandosi tra i neuroni, agisce come una sorta di collante, inglobando placche e grovigli "neurofibrillari".


Nell’immagine osserviamo le differenze tra un cervello di un paziente affetto d’Alzheimer (a destra) e un cervello normale.

Finora si è sempre pensato che, con questa malattia, vada persa la capacità di formare i ricordi ma, secondo uno studio condotto da alcuni ricercatori del MIT di Boston, ad essere lesionata sarebbe la capacità di recuperare i ricordi, che continuerebbero a formarsi normalmente. Se così fosse, si potrebbe pensare alla stimolazione mirata di alcune aree del cervello come sistema per ritrovare la memoria perduta. 
Il gruppo di ricercatori guidati da Susumu Tonegawa ha sperimentato su dei topi questo sistema, che consiste nell’optogenetica, una rivoluzionaria tecnica di controllo dell'attività cerebrale che consente di usare un fascio di luce per accendere e spegnere a comando specifici neuroni manipolati geneticamente per essere sensibili alla luce.
Il recupero dei ricordi nel cervello è azionato da bottoncini (le cosiddette 'spine dendritiche') che connettono fra loro i neuroni e che si attivano ogni volta che uno stimolo esterno fa rivivere un'esperienza ridando vita ad un ricordo. Nei malati di Alzheimer queste spine dendritiche tendono a diminuire nel tempo, rendendo il ricordo sempre più difficile da recuperare. L'esperimento condotto sui topi, però, ha dimostrato che queste possono essere nuovamente stimolate a crescere.
Nonostante il cammino da fare sia ancora lungo, siamo sulla buona strada per trovare una cura per questa terribile malattia.

- Iole Clarizia

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